Leggende della Val Grande



Sebbene presenti in minor numero rispetto a molte zone anche limitrofe, anche le valli di Lanzo possiedono il loro corpus di leggende e racconti; nella Val Grande le leggende sono presenti in scarso numero, rispetto a molte altre zone anche limitrofe; alcune sono riprese più volte in modo simile in luoghi diversi, mentre altre sono comuni a tutto l'arco alpino.


V'è una leggenda, in Val Grande, che si ricollega ad una particolare costruzione, il Ponte del Diavolo di Lanzo.
E, sebbene esso sia ovviamente al di fuori della valle stessa e la sua leggenda conosciuta ai più, mi par d'obbligo riportarla ugualmente in questa pagina, prima di raccontare della Balma di Vonzo.


Il ponte del diavolo - Lanzo

Vuole la leggenda che gli abitanti di Lanzo tentarono più volte l'impresa di costruire un ponte sul fiume Stura, ma questa era troppo grande per mani mortali, poiché era necessario costruirlo in un unico arco data l'altezza dal letto del fiume. Giunse allora il diavolo in persona ad offrirsi di costruirlo per loro, vantandosi di poterlo fare in una sola notte! Ma in cambio chiese di prendere la prima anima che lo avesse attraversato.
Il patto fu stipulato e il ponte fu costruito, in una notte come promesso; ma il diavolo fu beffato dall'astuzia dell'uomo. Infatti al mattino balzò fuori dal suo nascondiglio avventandosi sulla sua ricompensa... scoprendo che era semplicemente un cane! (varianti della leggenda vogliono un maiale o addirittura una forma di toma; un'altra variante vuole che non furono gli abitanti a mandare avanti l'animale, bensì un sant'uomo, probabilmente ispirata dalla cappella di San Rocco che si trova all'inizio del ponte, il quale è raffigurato solitamente con un cane, appunto)
Il diavolo dalla rabbia scalciò fortemente, lasciando impresso nella pietra il segno della sua zampa di caprone, segno che si può vedere ancora oggi!
Stando invece ai fatti, si sà che fu costruito nel 1378 e che per pagarne le spese fu imposto un dazio sul vino per 10 anni! (poveri gli avventori delle pìole)
La leggenda è invece ottocentesca, ricalcata da altre simili (di ponti ed altre opere costruite dal demonio) sparse per mezza europa. Difatti nei vecchi documenti e nella parlata locale è chiamato Pont del Ròch, dalla piccola cappella dedicata a San Rocco (gravemente vandalizzata pochi anni orsono) che sorge di fronte ad esso. San Rocco non casuale, poiché questo, come altri ponti medievali, presenta una porta a metà che veniva chiusa e presidiata durante le epidemie di peste per evitare che il contagio si propagasse, e proprio San Rocco era invocato come protettore contro la peste.

ponte del diavolo o Pont del Ròch



La Balma di Vonzo

Salendo verso il Santuario del Ciavanis a media distanza da Vonzo, poco più in alto del sentiero v'è un enorme masso che funge da balma e da stalla.
A questa pietra son solite trovarsi le fate a danzare e festeggiare com'è loro costume; e una notte, in gran numero, misero in atto l'impresa che da molto tempo si riproponevano:
si misero d'impegno e sollevarono la Balma dal suolo, portandola alta nel cielo! La trasportarono lontano nella valle sopra boschi e prati oscurando alla vista le stelle e la luna a chi avesse levato gli occhi in quella notte scura. Intendevano scagliar il masso sull'ardita costruzione del Ponte di Lanzo, giacché era opera del diavolo. Ma quest'ultimo si mise di mezzo, non volendo che la sua opera andasse distrutta, e le attese al centro dell'arco; e quando infine le fate giunsero in vista del ponte il demonio scagliò un'imprecazione infernale e le pareti delle montagne si chiusero davanti a loro, impedendo alla roccia di passare, anche se provarono a crearsi un varco con la stessa.
Sconfitte nel loro intento, furono costrette a tornare indietro, riportando la Balma donde l'avevano scalzata; ma il viaggio era lungo e la pietra pesava sulle loro teste, tanto che pareva che vi stessero penetrando. Ma dopo l'estenuante volo, in tempo prima del sorgere del sole, giunsero alla meta posando nuovamente la roccia al suo posto.
E chi vi passa davanti può ancor oggi vederla incavata, dove le teste dei piccoli esseri la sorressero durante l'incompiuta impresa.

La Balma è anche conosciuta come Roc dle Masche; una variante della leggenda vuole infatti che fossero delle masche (feje in lingua locale) a trasportare il masso e lasciarvi l'impronta delle schiene, per aiutare il diavolo nella costruzione del ponte di Lanzo. Ma, a causa di un diverbio, il diavolo non volle più il loro aiuto ed esse lasciarono cadere la roccia nel luogo dove ora si trova.

Balma di Vonzo, Roc dle Masche




Pera Cagna - Trioni (Groscavallo)

Giungendo al Piano dei Trioni dal sentiero che parte da Migliere, si viene accolti sulla sinistra da un grosso masso, denominato Pera Cagna (pera Cagni, in origine).
Leggenda vuole che il diavolo volesse scagliare la roccia su un paese con l'intento di seppellirvi sotto tutti i suoi abitanti; ma, mentre trasportava in volo il macigno, questo divenne sempre più pesante, fino al punto che il diavolo non poté più sostenerne il peso e lo lasciò cadere nel posto dove ancor oggi si trova.
Fatto stà che il diavolo, ancora deciso nel suo intento, tentò in ogni modo di risollevare la grande pietra, tramutandosi anche in animali, dal leone all'aquila e molti altri; e i solchi e le striature rimaste sul masso sarebbero prova dei suoi tentativi, segni degli artigli e degli zoccoli degli animali in cui mutò. E sul fianco, una nicchia abbastanza profonda indica il punto in cui tentò di ricaricarselo sulla schiena, finendo per lo sforzo solo a segnare profondamente la roccia.
Infine, non riuscendoci tornò a testa testa bassa donde era venuto.
Ora però, vi chiederete, come mai questo masso cambiò il proprio peso?
Beh, alcuni dicono che fù opera delle preghiere di un santo eremita dimorante nel bosco sacro del Santuario di Forno, altri sostengono che si trattò di una magia delle fate, ma tutti concordano che tale aumento di peso derivò dal mutare del cuore del masso da semplice pietra ad oro puro!

Un'altra leggenda vuole invece, più semplicemente, che il diavolo nascose oro e preziosi sotto questo masso.

Pare che un tal Buggia si arricchì estraendo oro da sotto la Pera Cagna.

Certo è che un antico detto recita "Calcante e Pera Cagni a valo pì che Franci e Spanij" (Calcante e Pera Cagna valgon più di Francia e Spagna).
Probabilmente, tanto il detto quanto le leggende, traggono fondamento dalle ricche miniere d'oro e d'argento della zona dei Trioni.

Piccola nota sulla probabile origine del nome: attualmente sconosciute ai più, esistevano anticamente delle famiglie i cui cognomi eran proprio Cagni e Pera e han posseduto per un certo periodo dei terreni attigui, sul cui confine stava proprio la Pera Cagni. Così pure anche un altro nome probabilmente deriva dalle famiglie Pera, vista la loro presenza -un tempo- a Campo della Pietra, perl'appunto 'Champ dla Pera'


Pera Cagni

Pera Cagni

Pera Cagni

Pera Cagni


Leggenda del Campo della Pietra

Si narra di due giovani nativi della Savoia, Cristina e Michele, rifugiati in Campo della Pietra attraversando i monti, per sfuggire all'ostilità dei parenti contrari al loro matrimonio. Riusciti in valle a coronare il loro sogno d'amore, dopo qualche tempo Michele decise di far ritorno in Savoia sperando di ottenere il perdono per sè e per la consorte, una volta incontrato i rispettivi genitori.
Riuscito nell'intento, sebbene con difficoltà, tornò immediatamente indietro per portare la lieta notizia all'amata e tornare finalmente insieme in Savoia.
Ma la giovane sposa ogni giorno si recava su un alto roccione (prospiciente la "frontale"), in attesa di scorgere l'amato di ritorno; quando infine un giorno lo notò, per la troppa gioia mise un piede in fallo e precipitò, morendo.
Impazzito per il dolore, Michele errò per giorni sulle montagne, diperandosi; e fu poi ritrovato, morto, sulla Pera Cagna al Pian dei trioni.

Un'altra versione pare mediare questa leggenda con quella del Roc 'd Peder, che segue.
Secondo questa i due giovani giunsero a Forno, dove ancora sorgeva il castello che dominava il villaggio, e furono subito uniti in matrimonio da un cappellano.
Non sapendo dove andare a vivere, furono accolti da un pastore che viveva a poca distanza da Forno, prima di giungere a Groscavallo.
Essi cominciarono a lavorare con lui a badare alle greggi, ma un giorno un uomo venne dalla Savoia a riferire ai due sposi che le famiglie davano loro il perdono; Michele fu felice della notizia, ma diffidando dell'uomo sconosciuto decise di recarsi in Savoia solo, a verificarne le parole, e di tornare in seguito a prendere l'amata se fossero state veritiere.
Così fu, e Michele fece ritorno dopo qualche tempo in Val Grande, sicuro ormai del perdono ricevuto; ma quando infine giunse verso il fondo valle, un cupo rumore si levò dai monti e come una nube di polvere si levò dal campo ove v'era la casa del pastore. Con un dolore al cuore, Michele si affrettò a scendere il versante e notò come un grosso masso che non ricordava sorgesse ora vicino alla Stura; ma Cristina non andava a raggiungerlo, nè lui la scorgeva. Vide però un uomo vicino alla pietra, che piangeva; e riconobbe in lui il pastore che li aveva ospitati. In un attimo nella sua mente balzò l'intuizione di ciò che era accaduto: il grosso masso che era caduto da una rupe aveva travolto e schiacciato la sua Cristina.
Come un pazzo tentò allora di sollevare il macigno con tutte le sue forze, lacerandosi le mani, senza alcun risultato. Pianse tutte le sue lacrime in quel punto, sul masso che gli aveva tolto la felicità dalla vita.
In seguito diede poi una forte somma di denaro al pastore per far costruire un ponte sulla Stura, vicino a quel campo, come in ringraziamento delle belle e felici giornate che aveva vissuto in quel posto. Il ponte fu costruito, e numerose case in seguito ad esso, e il luogo venne a chiamarsi Campo della Pietra.


Il Roc 'd Peder

In mezzo alla Stura, tra Campo della Pietra e Forno Alpi Graie, esisteva un masso che porta il nome di colui su cui si è abbattuto.
Un giorno di chissà quando, tal Pietro del Forno, si trovava a Stura per prender l'acqua dal fiume. In tal frangente, un'enorme roccia rovinò nella valle, investendo e seppellendo lì il pover'uomo.
Si dice che in certe notti si ode la voce del malcapitato -o, quantomeno, della sua anima- che chiede aiuto e d'esser liberato di quell'immane peso che lo opprime.



Pian dei Morti

A monte di Pialpetta, salendo lungo il sentiero GTA, si passa vicino al lago di Vercellina e si prosegue fino a passare sul Colle della Crocetta, spartiacque tra la nostra valle e quella dell'Orco. Passato il Colle, ci si ritrova in un pianoro del territorio di Ceresole che porta un triste nome: Pian dei Morti.
Sebbene in tempi più recenti il luogo si sia riguadagnato a pieno diritto questo nome (vedendo un piccolo gruppo di partigiani affrontare un grosso contingente nazi-fascista, battendoli e mettendone in fuga i pochi sopravvissuti), pare che l'origine sia da cercarsi in una battaglia qui svoltasi all'inizio del XVIII secolo; pare che a quel tempo un gruppo di abitanti di Ceresole, con la complicità dei cittadini di Bonzo (all'epoca ancora comune a sé stante), operarono per dispetto il furto delle campane della Chiesa di Groscavallo.
Nottetempo, col favore del buio, s'introdussero nel campanile della Parrocchiale, staccarono le pesanti campane e, a spalle, s'incominciarono la marcia fino a Ceresole. Ma gli abitanti di Groscavallo s'accorsero del furto e si misero all'inseguimento raggiungendo il gruppo dei Ceresolesi il cui cammino era lento per il pesante carico; e vi fu battaglia nel piano, con morti e feriti da entrambe le parti, ma la vittoria arrise infine ai Groscavallesi che recuperarono il maltolto e riportarono le campane al loro posto (ed ostruirono con un tavolaccio l'ingresso, per evitare il ripetersi di fatti analoghi).
Da allora il luogo è chiamato Pian dei Morti, a ricordo dell'avvenimento.


La processione dei Morti o Compagnia

Antichissima e molto diffusa questa credenza, è conosciuta in molte varianti in molte zone d'Italia ed oltre.
Per alcuni la Compagnia si muove solo in specifiche date dell'anno -sovente solo nella notte del 1 novembre, che precede il giorno dei morti-, per altri accade ogni notte, secondo altri ancora si forma solo quando muore qualcuno.
Nei primi due casi solitamente marcia lungo specifici percorsi (nella valle si ritiene che le anime si radunino sulla Ciamarella e, passando di cresta in cresta, muovano verso la Levanna), spesso accompagnata da un vivente che nessuno conosce, che viene scelto perchè possiede doti particolari; costui si sdraia su ruscelli e crepacci per permettere ai defunti di passare, camminando sul suo corpo.
Secondo altri, specie per il terzo caso, questa persona è qualcuno che è stato vicino al defunto e che viene incaricato da questo di portare dei messaggi ai viventi, parenti ed amici. Affine a questa versione, è il caso in cui, la persona particolarmente 'sensibile' possa incontrare un conoscente, come pure uno sconosciuto, e di parlargli in un'apparente normalità, salvo poi scoprire successivamente che quella persona era venuta a mancare poco prima.
Tra le due varianti della Compagnia, v'è la terza via in cui, il malcapitato che la incontra per caso lungo il cammino, viene accerchiato dalle anime dei defunti, che cercano disperatamente di affidargli i messaggi per i vivi, rischiando di non riuscire più a liberarsi dalle anime e di essere trasportato via con loro.

XX



Leggenda del Lago d'Unghiasse

Narra delle danze che -nelle notti di luna- intrecciano le Ninfe sui prati fioriti che circondano l'incantevole lago: e del mitico Re della Montagna, invisibile signore delle tempeste, che domina l'eterno regno dei ghiacci.
Eccola, in libera trasposizione poetica:

Placido specchio alla splendente luna
ed alle stelle che le fan corona,
il lago, come un limpido zaffiro
nel diadema dell'Alpi è incastonato.
Uno stuolo di Ninfe s'avvicina
(da focosi ed impavidi camosci
in turbinosa corsa trasportato)
ed intesse, tra danze e melodie,
il manto d'or del Re della Montagna.
Fragil sarà come la vita umana,
come umano sospir sarà sottile,
ma di neve e di cielo avrà i colori
delle leggiadre stelle gli splendori
e del lago ceruleo il fruscìo,
ch'ai sogni invita e dà pace al cuore.
Cingendolo, dall'alto d'una rupe
nel profondo del lago il Re dei Monti
vedrà riflessa la bellezza altèra
del manto che lo fa Signor del Mondo...
Ma, -all'improvviso- fremono i camosci
e cessan dal lavoro le leggiadre
Ninfe, che lungi fuggon spaventate:
è sorto il sole, ed il suo raggio ardente
disperde negli spazi senza fine
le nebbie d'oro dei notturni sogni...
Riposa il lago, solo testimone
del romantico sogno d'un poeta:
e si prepara nel fulgor del giorno
al futuro incantesimo lunare,
alla nuova poetica illusione.


Leggenda della Stella Alpina

Un'altra filastrocca locale racconta l'origine del fiore simbolo delle Alpi, differenziandosi dalla più conosciuta leggenda svizzera:

Giunse in cima a una montagna
un fanciullo sognatore
che voleva al ciel rapire
d'una stella lo splendore.
Guardò in alto e la più bella
parve essergli vicina:
tese il braccio e la raccolse
con la mano piccolina.
Ma non resse al grave peso
del bell'astro serotino,
che precipitò dal monte
trascinando il fanciullino...
Arrestossi la sua corsa
contro un masso desolato:
e ivi, morto, giacque a lungo
sol dal vento accarezzato.
Ma un bell'angelo del cielo
scese rapido la china:
pianse, e cadde sulla stella
una lacrima divina.
Dalla stella e da quel pianto
nacque il fior della montagna,
che risplende fra le nevi
e che il sangue ardente bagna.


Monte Iseran, la montagna che non c'è

'Seconda stella a destra
questo è il cammino
e poi dritto, fino al mattino
poi la strada la trovi da te
porta all'isola che non c'è'

Così canta Bennato nella sua canzone; ma nelle Valli di Lanzo quello che non c'è è una montagna, che risponde al nome di Monte Iseran, alto 4045 metri.
Questa storia, che non è una leggenda ma un fatto realmente accaduto, comincia nell'800 quando la carta dello Stato Maggiore Sardo nell'edizione del 1858 riporta questo monte con la fatidica altitudine, rilevata dall'ingegnere e geografo Coraboeuf nel 1825. (il Monte era segnato sulle mappe già nel 1600) L'800 è il secolo delle grandi esplorazioni, spesso in luoghi selvaggi e lontani, di sicuro inesplorati (la più conosciuta è forse la ricerca delle sorgenti del Nilo). Sebbene oggi possa sembrare assurdo, all'epoca gran parte delle Alpi corrispondeva a questa descrizione, quantomeno per l'aspetto cartografico; i rilievi erano perlopiù sommari e a intuizione e questo fù causa, in parte, del mito dell'Iseran.
Inoltre, all'inizio dell'800 tal Albanis Beaumont scrive nella sua "Descrizione delle Alpi Graie e Cozie": '...questa montagna, che si erge maestosamente come una piramide alle estremità delle grandi valli di Tignes, di Bonneval, di Locana e di Cogne, prende il suo nome dall'Isère." E ancora: "L'Arc ha la sua sorgente al piede dei ghiacciai del Monte Iseran, montagna situata fra il Piemonte, la Valle d'Aosta, la Tarantasia e la Moriana; è dai fianchi di questo colosso che nascono l'Isère, l'Arc, l'Orco, la Stura ed hanno origine molte catene di montagne principali, che formano altrettante ramificazioni alpine...'
Numerosi furono quindi gli esploratori che si avventurarono lungo la catena alpina con l'intento d'essere i primi a scalare questa o quella vetta, sognando di consacrare il proprio nome nell'albo dei grandi scalatori; e più d'uno tentò anche la scalata al mitico Iseran, sedotti dalla speranza di poter giungere in cima ad una vetta oltre i 4000 m.
Tra questi, due si contendono il merito d'aver segnalato l'inesistenza del monte stesso: William Mathews e J.J. Cowell, rispettivamente i primi salitori del Monviso (1861) e del Gran Paradiso (1860, in gruppo assieme a W. Dundas e due guide); tuttavia i loro tentativi di scalata all'Iseran precedono questi eventi di uno o due anni.
Entrambi, nel 1859, giunsero nei pressi della regione del Monte ed in cuor loro decidono di voler provare l'ascesa. Mathews arriva a Chamonix a fine agosto volendo dirigersi a Torino passando dall'Iseran e dal Moncenisio come conclusione della sua esplorazione delle Alpi Graie. Cowell rimanda all'anno successivo e nei primi di settembre sale al Gran Paradiso ma a causa del freddo è costretto scendere velocemente. Alcuni giorni dopo attraversa il Passo della Galisia e successivamente il Colle dell'Iseran (da cui non riesce a scorgere nulla dei dintorni per la nebbia e scende a Bonneval.
Qui parla col gestore dell'albergo in cui trova ospitalità; s'intendono molto bene sulla Levanna e il gestore si offre di accompagnarlo al primo giorno di bel tempo. Ma quando vengono a parlare dell'Iseran Cowell si trova davanti a qualcosa che non s'aspettava: il monte non esiste! Il gestore conosce bene le montagne della zona e asserisce nel modo più assoluto che una tale sommità si trovi nella zona.
Deluso dalla notizia, rimane nella locanda in attesa che il tempo migliori; il 10 settembre, accompagnato dal gestore, ascende alla Levanna Occidentale e da lì osserva quel che gli era stato anticipato: nella direzione dell'Iseran non v'è nulla che si avvicini alle descrizioni che si avevano.
Due giorni dopo, per ulteriore conferma, sale al Colle dell'Iseran e ascende la piccola punta, che calcola in 480 mt di dislivello dal colle stesso, che verrà poi battezzata come Signal de l'Iseran.
Torniamo a Mathews, l'anno prima; lascia Chamonix e si dirige prima a Bourg St Maurice e poi a Tignes, il primo settembre.
Chiede una guida per arrivare a Bonneval malgrado vi sia una mulattiera per tutto il percorso, e parte per l'attraversata; giunto sulla sommità del Colle chiede alla guida dove sia la montagna che gli risponde semplicemente 'è qui, signore'. Chiede ulteriori spiegazioni fino a sentirsi dire che non vi sono punte nevose, ma solo e sempre una mulattiera, e giunge alla conclusione che la sua guida sia uno stupuido, malgrado anche lui non veda grandi alture, credendo -o forse sperando- che il monte fosse nascosto dalle nubi o dai modesti rilievi circostanti.
Scende a Bonneval e infine terminerà il suo giro e tornerà a Londra, dove solleverà la questione dell'esistenza del Monte Iseran al primo convegno dell'Alpine club. Nessuno lo aveva mai visto da vicino e deciderà di tornare l'anno seguente per più approfondite esplorazioni.
Infatti nell'agosto del 1860 torna al colle accompagnato da una guida esperta e, amaramente, rileva che il monte non esiste, un mese prima di Cowell.
Spetterebbe quindi a lui il merito della definitiva conferma dell'inesistenza del Monte Iseran, tuttavia il suo resoconto verrà pubblicato solo nel 1862, mentre quello di Cowell lo sarà nel 1861.